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                                                    LA MORAVIA LETTA DAI LETTORI
                                                  (relazione di Silvia Cerotti sulla lezione del Prof. Patrizio Alberto Andreaux, Szeged, 12/2/2011)


Bonaventura Tecchi e Fabio Bonafé sono stati lettori italiani in Moravia, anche se in periodi diversi.

Tecchi era originario di Bagnoregio, in provincia di Viterbo, dove nacque nel 1896. Compì gli studi classici a Viterbo e quelli universitari a Roma, nella Facoltà di Lettere, dove ebbe maestri C. De Lollis e G. Salvadori. Partecipò volontario alla guerra 1915-1918, durante la quale fu ferito e fu costretto alla prigionia nel Lager di Celle, presso Hannover. Qui venne a contatto con quella letteratura tedesca, che da allora rimase al centro dei suoi interessi di studioso e di scrittore.  Tra gli amici di prigionia vi fu Carlo Emilio Gadda. 

Fu direttore del Gabinetto Viesseux di Firenze, professore di lingua e letterature tedesca all'Università di Padova e Roma e, dal 1933 al '37, lettore nelle università di Berna e Bratislava. Esordì in narrativa con Il nome sulla sabbia (1924), pubblicando in seguito una serie di romanzi, racconti e prose. Fu un importante critico, traduttore, narratore, nonché eminente germanista.

Ma è nel dopoguerra della seconda guerra mondiale che ottenne il maggiore successo con Valentina Velier (1950) e soprattutto Gli egoisti (1959), rimanendo in ogni caso fedele alla propria vocazione psicologica e allo studio dei conflitti interiori che si manifestano nell'azione, nell'idillio, nell'evasione, nella nostalgia, spesso con la venatura di un'amara ironia. A questo proposito lo stesso Gadda, riferendosi al modus narrandi tecchiano, osservò: «C'è un velo di profonda malinconia sulle cose viste con rara facilità».[1]

Le qualità narrative e le disposizioni psicologiche di Tecchi sembrano trovare la propria forma più naturale nell'idillio (da intendersi, secondo una precisa etimologia, come piccolo quadro). Ecco quindi, frutto anche dell'esperienza all'estero, nascere le prose degli Idilli moravi (1939), dove penetranti ritratti psicologici, limpide visioni di paesi e figure e affettuose indagini della vita della natura rivelano le migliori qualità della scrittura tecchiana. Essa infatti si fa libera, intensa, nervosa e sfugge a quell'eccesso di decoro e di rigore che spesso è stato il suo più frequente pericolo. Il paesaggio assume la funzione di uno sfondo, dando risonanze allusive e simboliche al realismo delle figure umane descritte.

Fabio Bonafé (1948), oltre ad aver insegnato per venticinque anni  nelle scuole superiori di lingua tedesca tra Merano e Bolzano, ha ricoperto il ruolo di lettore di italiano presso le università di Olomouc (Repubblica Ceca) e di Innsbruck (Austria). Attualmente vive e lavora a Bolzano, dove collabora con il quotidiano «Alto Adige».

Le pecore impazienti, Settantacinque storie e una ricetta, opera prima di Bonafé, raccoglie brevi racconti molto diversi tra loro, ma che alla fine si presentano come un unico romanzo, un po' bizzarro. Ogni storia ha un senso in sé, ma leggendo il tutto emerge un percorso comune, nello stesso modo in cui la vita di ognuno di noi è composta da più personaggi e tante piccole storie.

Nonostante qualche volta il gregge potrebbe apparire come il vero protagonista, le pecore impazienti trovano il modo per fuoriuscire da esso: fanno parte del gregge, senza essere il gregge. Ognuna ha la sua parte, entra sulla scena col suo carattere e se ne allontana per seguire la sua avventura. Storie di uomini nel e fuori dal gregge quindi: uomini che lottano tra il destino di essere sottomessi e la tensione a riscoprire la propria identità. E in questo contesto l'impazienza assume un valore fondamentale, rappresentando la volontà di ricerca, il desiderio di mettersi in moto per ritrovare la propria autenticità. Il libro di Bonafé invita il lettore a lasciarsi alle spalle le apparenze illusorie e le spiegazioni banali per percorrere nuove strade, prendendosi gioco con fine ironia delle certezze e delle incrollabili verità di cui si fanno portatori i campi della politica, del vivere sociale, della religione.

La Moravia in cui hanno vissuto e lavorato Tecchi e Bonafé è molto diversa, anche dal punto di vista geografico. Questa regione infatti, a seguito della fine dell'Impero austro-ungarico nel 1918, divenne parte della Cecoslovacchia, per poi entrare a far parte del Protettorato di Boemia e Moravia al momento dell'occupazione tedesca, durante la seconda guerra mondiale. Negli anni ’90, con la fine della Cecoslovacchia, divenne parte della Repubblica Ceca.

Ciò che accomuna le due epoche storiche e i due diversi contributi è un’analoga visione della realtà e del contesto in cui i due professori si sono imbattuti. Entrambi infatti sono portatori di una certezza: la realtà è certamente più grande delle forme note, o di quelle che ci sforziamo di riconoscere. La pura forma è incapace di contenere l’irrazionalità della vita.

Da una parte quindi Tecchi, tramite la sua prosa simbolista e i contrappunti idillici, stabilisce una correlazione tra i dati apparenti e il profondo; dall’altra Bonafé mutua il modello del dialogo filosofico e si fa forte del potere eversivo e sacro della parola per condurre il lettore in un fecondo quadro di pecore umanizzate, erranti e visionarie.

Tecchi e Bonafé quindi «ci portano dove non ricordavamo di essere stati, in una regione nuova ed eterna, là dove per un momento i contrari si urtano, s’abbracciano e liberano quella scintilla che […] illumina l’”oltre” della realtà e subito si spegne».[2]

[1]    C. E. Gadda, Lettera CXXV, Milano, 12 gennaio 1940.

[2] M. Lodoli, La carne dell’anima